ALDO CIBIC, IL DESIGNER CHE IL MONDO CI INVIDIA

Ho incontrato l’architetto-designer vicentino di fama internazionale. Una lunga conversazione che ripercorre la sua straordinaria carriera e spiega i segreti del suo successo. Con qualche utile consiglio per i giovani e per chi gestisce la città.

1) Aldo, raccontaci di te quando eri ragazzo, a Vicenza. Cosa facevi? Eri già proiettato verso il percorso che poi hai fatto, o non te lo saresti mai immaginato?
“Sono nato a Schio, ma a Vicenza ci sono arrivato per il Liceo, dopo una parentesi a Castelfranco. La mia famiglia viveva un momento particolare e mio padre disse a me e mio fratello che potevamo arredarci la nostra stanza della nuova casa come volevamo, dandoci di fatto carta bianca. Presi la palla al balzo e puntai dritto a quello che allora era decisamente il miglior negozio di arredo in città, Fontana, con mobili di Cassina, Magistretti, Arc Linea, giusto per capirci…

Mi sono quindi creato, a quattordici anni, un piccolo mondo, a misura delle mie esigenze non solo pratiche ma anche estetiche e ho compreso che quella era la mia attitudine. Ho sempre avuto infatti un’idea “estetica” della vita, sin da bambino, quasi fossi stato consegnato, nascendo, ad una famiglia “sbagliata” (sorride, NdR).

A 17 anni i miei hanno poi formalmente divorziato e fu l’occasione per arredare non più una stanza ma una nuova casa. Evento che mi diede la possibilità di andare ulteriormente avanti in quel percorso di avvicinamento al design, anche se solo come “selezionatore” di bei mobili di design. Ma la strada era segnata…

2) Come sei riuscito a fare il grande salto ed entrare, subito da protagonista, nel grande giro del design italiano?
Per un caso fortuito a dire il vero (ma le coincidenze non sono mai casuali NdR). Tramite amicizie comuni, a 22 anni ebbi l’opportunità di conoscere Ettore Sottsass a Milano, all’epoca già un’icona del design internazionale. Dopo il nostro colloquio, con mia sorpresa, mi disse diretto: “Quando vuoi vieni a lavorare qui”.  Non avevo all’epoca né esperienza, né una preparazione specifica. Il suo fu letteralmente un atto di coraggio e incoscienza, ma evidentemente aveva fatto una valutazione “a pelle” come solo i grandi sanno fare.

Entrai così a far parte, nel 1980, della Ettore Sottsass Associati, dove assieme a me c’erano Matteo Thun, Marco Zanini e Marco Marabelli. Nel 1981 fondammo il gruppo Memphis, assieme a Hans Hollein, Arata Isozaki, Andrea Branzi, Michele de Lucchi e altri architetti di livello internazionale, dove eravamo tutti soci.

E mi sono improvvisamente ritrovato da Vicenza al centro del mondo. Pensa che la Triennale di Milano, l’istituzione italiana dedicata al design e all’architettura, è divisa in “prima” e “dopo” Memphis. Uno spartiacque epocale, che segna una rottura nella storia del design, nel quale mi sono ritrovato al centro quasi senza rendermene conto, gestendone via via anche tutti gli ambiti gestionali con grande carico di responsabilità.

Il mitico gruppo “Memphis”

3) Mi viene in mente un episodio della nostra gioventù, quando, credo nel 1984, ci trovammo, casualmente, a Rio de Janeiro. Restai sbalordito, positivamente, di vederti quale architetto di uno dei negozi più trendy del momento per il mitico brand Fiorucci a 10.000 km da Vicenza…
Me lo ricordo bene, anche perché ci siamo divertiti molto. Vedi, da qui si vede la grandezza di certe figure geniali e intuitive come Sottsass. Non parlavo bene l’inglese e non sapevo ancora realmente progettare, ma ancora prima di quello a Rio mi aveva già dato l’incarico di realizzare il più grande negozio al mondo di Fiorucci, ad Amsterdam.

4) Saprai senz’altro che recentemente, nell’ultima intervista su Panorama, Ettore Sottsass ha dichiarato che il suo “successore” ideale sei tu…
Si, e ne sono rimasto basito prima che onorato. Dopo la mia uscita dal gruppo, finalizzata alla costruzione di quel percorso culturalmente autonomo che ancora oggi perseguo, per 10 anni non aveva più voluto vedermi… Ma io sono cresciuto con lui e questo resterà sempre.

Sono uscito da Memphis nel 1989 finché, man mano che crescevo e cercavo la mia identità personale, seguendo quel pensiero filosofico che suggerisce di allontanarsi da se stessi per poter capire chi si è davvero. E così ho fatto, dopo 12 anni, tornando a cercare di capire chi fossi.

Da una parte dando vita al progetto “Standard”, nel quale producevo io stesso gli oggetti che disegnavo divenendo probabilmente il primo “maker”. Dall’altra insegnando nella “Domus Academy” e inventandomi il “design di servizi”, che a quel tempo non si sapeva cosa fosse, assecondato da Andrea Branzi, che considero, dopo Sottsass, la testa più fine del mondo del design. Per intenderci, primi esempi di successo del “design dei servizi”, ma arrivati solo molti anni dopo, sono Air BnB e Huber.

Attività svolte sempre con l’idea di perseguire un sentiero di alta sperimentazione. Percorso poi concretizzatosi in una grande mostra a Milano, “New Stories New Design”, basata sullo spostamento del concetto di design, che passa dalla materialità degli oggetti al “fare” del designer che è un operatore inserito nella società.

Nel 2004 sono stato poi invitato alla Biennale di Architettura. Essendo interessato alle dinamiche progettuali, alla qualità della vita e della società che ruota attorno all’architettura più che all’oggetto della costruzione in sé, ho portato il progetto “Microrealities”. Il mio obiettivo era mettere in luce la relazione dinamica tra luoghi e persone determinando un nuovo modo di disegnare i luoghi basato sulle interazioni sociali in chiave di sostenibilità.

Nel 2010 sempre alla Biennale di Architettura di Venezia ho prodotto la mostra “Rethinking Happiness”, incentrata su una nuova interpretazione e rivalutazione delle periferie urbane e delle campagne.

Aldo Cibic “Rethinking Happiness”

5) Mi sembra di capire che il tuo era un destino segnato. Il primo grande salto, da Vicenza a Milano, quello che ti ha proiettato verso ciò che sei adesso, l’avresti fatto in ogni caso.
Si. Ma alla base ci deve essere, come nel mio caso, la voglia e la capacità di mettersi in gioco, senza paura di perdere qualcosa, uscendo dalla comfort-zone. E non solo da giovani.

Questo spiega ad esempio come alcuni anni fa io abbia deciso di trasferirmi in California a San Francisco. Ero convinto che lì ci fossero le condizioni ideali: la più grande ricchezza economica mai esistita nella storia dell’umanità, e grande desiderio estetico, quasi una voglia di nuovo Rinascimento. Ma mi sbagliavo. In realtà è una società piuttosto egoista e cinica, con disuguaglianze sociali clamorose.

Però solo provando sulla propria pelle si può capire se una cosa funziona o no. Ciò che conta è restare intellettualmente pronti a cambiare idea e scenario pur di perseguire i propri sogni.

Così ho fatto ad esempio quando, dopo la parentesi Californiana, che mi ha insegnato comunque molto, ho puntato sulla Cina, dove sono docente universitario. Un luogo che mi ha invece dato e mi sta dando molta più soddisfazione,  dove ho trovato apertura mentale straordinaria. Si respira l’aria della Milano o della New York degli anni ’80, briosa e frizzante di curiosità e voglia di nuovo.

Quello che mi interessa nella vita è vivere il mio tempo nella speranza di lasciare un segno di valore. Per farlo è necessario avere una costante motivazione.

Aldo Cibic, “Aesthetics of vitality”

6) Quale consiglio daresti ad un giovane vicentino che volesse emulare la tua carriera? Qual è l’elemento “magico” indispensabile?
Guarda, tocchi un tasto importante. I giovani e le loro motivazioni. Un giovane oggi deve inventarsi il suo ruolo nella società. Se ti aspetti che qualcosa arrivi da sola non hai capito niente. Bisogna avere la capacità di guardare continuamente a tutto quello che succede nella vita con umiltà, curiosità, disponibilità, avendo il coraggio di fare anche le cose più umili se serve, per capire dove il tuo talento può trovare le condizioni più idonee al suo sviluppo. Per comprendere, in definitiva, qual è il senso del tuo stare al mondo.

Gli ingredienti magici sono quindi umiltà e curiosità.

Mio figlio ha vent’anni e studia a Londra, alla Goldsmiths, università specializzata nella formazione artistica e umanistica. Una scelta totalmente sua e di questo ne sono contento. Quello che gli ho sempre suggerito, che ho insegnato ai miei allievi e proposto ai miei collaboratori è ciò che mi aveva insegnato il mio Maestro Ettore Sottsass, di fatto più un “antropologo” che un designer: avere un pensiero critico.

Ciò che è fondamentale, specialmente in questi tempi difficili di storture mediatiche, è avere una visione a 180°. Saper leggere la realtà con la propria testa, autocriticamente e senza farsi abbindolare da luoghi comuni.

Prendiamo la Cina, ad esempio. Ormai non ci litigo più con le persone prevenute nei suoi confronti, faccio finta di niente e tiro dritto per non perdere tempo. Ma la Cina è il futuro.

7) Qual è secondo te il confine tra “design” ed “architettura”? Solo questione di misure?
Il confine sta nel modo in cui io vedo l’architettura, ovvero più focalizzata nelle relazioni e interazioni sociali che essa è in grado di sviluppare e determinare piuttosto che nella fase progettuale ed esecutiva della costruzione in sé. Una visione dinamica e “sociale” dell’architettura quindi, diversa da come normalmente si è abituati a considerare l’arte del costruire. Forse per questo la rivista Domus mi ha inserito tra i 100 architetti del mondo.

L’esempio è l’attività che sto svolgendo all’Università di Shangai, cui sto portando questo pensiero progettuale rispetto alla società, che si concretizza con idee di rigenerazione urbana in particolari aree della città. Inserire, ad esempio, attività giovani in un contesto dove esiste un’alta percentuale di anziani, è un modo di pensare l’architettura diverso, che va oltre l’edificare.
Anche la progettazione di nuove comunità agricole fa parte di questo concetto, rivedendo il ruolo della campagna come luogo dove concentrare nuova intelligenza in chiave prospettica per il nostro futuro. Un tema, questo, che sta molto a cuore anche del governo.

La stessa visione che sto proponendo in questi giorni per un progetto vicino a Venezia, dove l’idea di architettura è una scenografia della qualità della vita. Qualità della vita e architettura non sempre vanno d’accordo. Io ne ho fatto la mia visione. Credo infatti che sia un dovere per me quello di creare con l’architettura un “palinsesto della vita” di un luogo, dove le varie componenti sociali trovino ciascuna la loro collocazione ideale e migliore possibile. Dove le cose sono pensate per funzionare, non per essere solo ammirate. Questo tipo di architettura è fortemente influenzato dal design, materia per sua natura attenta alla funzionalità prima che all’estetica.

8) Se improvvisamente ti fosse data carta bianca su come intervenire per salvare/migliorare Vicenza, urbanisticamente, architettonicamente ma anche socialmente, quali sono le prime cose che faresti?
Parto da una bella esperienza già fatta. Qualche anno, in un workshop organizzato dall’amico Cristiano Seganfreddo, ho fatto da tutor, assieme al designer Martino Gamper, ad un gruppo di studenti e giovani professionisti che dovevano collaborare con imprese locali diversificate per vari settori, dall’oreficeria, al vetro, all’ecologia ecc.
E’ stato un progetto davvero affascinante e coinvolgente perché nel giro di tre mesi si sono aperti per questi ragazzi degli scenari prima inimmaginabili, come la partecipazione alla fiera Miami Basel o l’interessamento di riviste internazionali come il Financial Times.
Era il periodo in cui si discuteva di come gestire la Basilica Palladiana e si parlava di mega budget. Io credo invece, e quel workshop ne è stata la dimostrazione, che si vuole far vivere il cuore cittadino si debba avere un laboratorio permanente, che sforni idee e proposte giovani, fresche e innovative in continuazione.

Aldo Cibic – Reinterpretazione della Rotonda in chiave design

Non servono grandi mezzi… uno studio di 200 metri, un paio di esperti che facciano da tutor ad un gruppo di giovani talentuosi, provenienti da diverse parti del mondo, facendoli collaborare con le eccellenze del territorio (che sono tante).

Ma deve esserci continuità, perché l’obiettivo è la contaminazione culturale. Come in natura, dalle diverse specificità si crea un’evoluzione. Quello che serve, a mio avviso, a Vicenza ora sono iniziative come questa, per uscire da quella chiusura e, passami il termine, provincialismo, che da sempre costituiscono il freno di questa meravigliosa terra. I giovani di talento devono avere delle opportunità qui.

Mi ricollego al caso di mio figlio… non l’ho indirizzato io a Londra. Ci è voluto andare lui, perché lì sapeva che avrebbe trovato il contesto giusto per maturare, capire e affinare il suo talento. Una scuola dove poter ragionare di più.

Quello che io sogno è quidi una Vicenza più aperta, che crei più occasioni perché ci siano più occasioni per vivere in questo posto bellissimo, dove avere più occasioni di scambio con gli altri.

In un mondo che muta così rapidamente, il paradosso è che le province, anziché studiare il modo in cui proporsi al meglio verso l’estero, tendano a richiudersi.

So che c’è, ad esempio un progetto di Flavio Albanese per il palazzo delle Poste in centro a Vicenza, che è fermo per cavilli burocratici e legali e questo fa male alla città.  Un albergo di alto livello qui sarebbe fondamentale, ad esempio, perché creerebbe le condizioni per attrarre e scambiare. Abbiamo delle realtà produttive straordinarie qui, ma bisogna metterle in relazione con il mondo. La formula magica è questa. C’è gente che farebbe carte false per poter entrare in contatto con quello che c’è qui. Ma non lo sa. Bisogna tenere vivo quella sapienza manifatturiera che c’è ancora e salvaguardarla perché è un tesoro inestimabile.

Vicenza deve catalizzare nuovi arrivi non solo perché è un bel posto dove stare e dove si mangia bene, ma perché qui ci sono le eccellenze produttive che in pochi altri posti al mondo sono così concentrate.

9) Quali criticità vedi oggi nel territorio?
Ahimè il punto dolente in Italia sono le periferie e Vicenza non fa eccezione… Serve una cura maggiore… bisogna “bonificare” ad esempio Viale Milano e recuperare pezzi di città che siamo persi. E smettiamola di credere che sia la polizia a poterci restituire le zone malate. È la vita che crei nei posti, il “palinsesto” di cui parlavo prima, l’unico mezzo in grado di fa girare in meglio la situazione.

Altra cosa… per carità, non ho nulla contro chi per mestiere fa l’ambulante, anzi li rispetto, ma ci sono dei mercati in città che sono ormai fuori dal tempo… roba che se viene uno da fuori crede che a Vicenza siamo rimasti al dopoguerra, a quando si portava in città l’ultimo modello di forbici o pelacipolle e girava l’arrotino. Neanche nelle periferie africane, sempre con tutto il rispetto, si vedono più.

Vicenza ha bisogno e merita un “palinsesto” della vita.

Maurizio Sangineto con Aldo Cibic

Aldo Cibic, architettura, design, Ettore Sottsass, vicentini famosi, VICENZA, Vicenza People


Maurizio Sangineto

Artista, Comunicatore, Naming Specialist. Ideatore di VICENZA.COM

Vuoi segnalare qualcosa di interessante su Vicenza, a cui vorresti dare più visibilità?