Skip to main content

FEDERICO POLITI: PROFESSIONE SALVAVITE

Federico Politi è una persona speciale che ha dedicato la vita a salvare vite, realizzando un sogno coltivato sin da bambino. A lui si deve molto dell’attuale organizzazione del SUEM Vicenza, da lui diretta, che giorno e notte assiste chi ha bisogno cure mediche e soccorso per emerenze.

L’ho intervistato per raccontarvi la sua incredibile storia.

Leggi tutto: FEDERICO POLITI: PROFESSIONE SALVAVITE


Federico, intanto grazie per essere per essere qui con me a raccontare la tua esperienza che reputo davvero significativa. Io e te ci conosciamo da tempo, ma mi piace divulgare quelle informazioni che non tutti conoscono. Vorrei sapere innanzitutto perché una persona arriva a fare quello che fai tu, cioè un lavoro davvero così complicato ma così straordinario…

Sono nato a Vicenza nel ’58, da mamma torinese e padre dell’Oltre Pò Pavese. Ho fatto le scuole a Vicenza e su scelta quasi imposta dai miei dopo le medie scelsi il Liceo classico Pigafetta. Ancora li ringrazio per aver insistito perché quella parte di “humanitas” che ho potuto apprendere in quella scuola è unica e quasi irripetibile. Ed è proprio in quella scuola che ci siamo conosciuti io e te, come ben ricordi. Dopodiché ho intrapreso gli studi universitari per diventare quello che fin da bambino desideravo: il medico.

Un giorno però incontrai un cugino che aveva scelto di arruolarsi nei Vigili del Fuoco e rimasi incantato dalla sua divisa. Cominciai ad avere qualche tentennamento. Vigile del fuoco o medico ? Ma no, mi dissi, il medico mi piace ed è quello che voglio fare! Però a ben guardare, piano piano la vita mi ha portato a fare tutti e due i mestieri: sono diventato un dottore che si occupa di emergenze.

Federico Politi – Direttore U.O.C. SUEM 118 – ULSS 6 Vicenza.

Ma come hai iniziato concretamente?

Essendo una persona estremamente curiosa, ero appassionato tra l’altro anche di fotografia. Lavoravo alla redazione cronaca del Giornale di Vicenza andando a fotografare gli incidenti appena successi. E lì c’è stato l’altro impatto estremamente forte che ho avuto. Quello con le persone che si trovavano in estrema difficoltà. Quella sofferenza umana, a volte sfociata in tragedia, mi ha spinto ancora di più a voler fare quello che sono andato a fare. La mia idea iniziale nell’approccio alla medicina era stata però quella di studiare psichiatra perché mi ero messo in testa che dovevo capire le persone per poter entrare in sintonia con loro. Il background di psichiatria, dove ho avuto la fortuna di esse esser preso inizialmente sotto l’ala del celebre Vittorino Andreoli, mi è effettivamente servito, ma un giorno ho vissuto un evento molto particolare. Durante un convegno proprio di psichiatria uno dei relatori ebbe un malore e partì il classico appello se in sala ci fosse un medico. C’era bisogno di un intervento immediato per soccorrere una persona tra la vita e la morte, ma io mi resi conto che quei “medici” al convegno erano talmente impreparati ad affrontare quel tipo di situazione. “Eh no – mi dissi – forse è meglio che io faccia qualcosa di più concreto della psichiatria”. Decisi quindi di studiare anestesia e rianimazione perché all’epoca erano gli unici ambiti che si occupavano veramente di emergenza. Per farmi un po’ di esperienza pratica e capire le varie patologie iniziai a frequentare il Pronto Soccorso di Verona, città dove studiavo.  Ricordo che avevo un professore che continuava a dirmi “Ma cosa ci fai qui tu che sei al quinto anno di medicina?  Vai a divertirti!” “Ma no – gli risposi – io voglio imparare”. “Imparerai più avanti “. “Io voglio imparare adesso, non più avanti!”

Ti parlo degli anni 80, dove tieni presente che all’epoca il servizio di soccorso pubblico era molto basico. L’ambulanza era gestita da degli enti di volontariato e non c’era un vero servizio gestito da medici o da infermieri. Non c’era il 118 quindi le chiamate ci arrivavano attraverso il 113 quindi in maniera assolutamente priva di una sequenza logica. E così succedeva che ci trovavamo magari in tre ambulanze ad intervenire sullo stesso ferito. Non c’era una struttura ad hoc. Io però avevo un carissimo amico tedesco e fu così che appresi come in Germania sulle loro ambulanze ci fosse sempre a bordo anche un medico. Oggi è scontato ma all’epoca l’ambulanza aveva solo “barellieri” nel vero senso della parola perché il loro compito era solo quello di caricare e portare via il malcapitato. In dotazione una barella di tela, i sacchetti di sabbia per immobilizzare le fratture degli arti, la padella e il pappagallo e basta.  Questo era il concetto del soccorso ed è stato così per parecchi anni. Poi però abbiamo cominciato a pensare diversamente prendendo spunto un po’ dalla Germania e un po’ dalla Francia alla Francia, dove i vigili del fuoco intervenivano con un’ambulanza e un medico a bordo per poter dare immediatamente le prime terapie efficaci. Inizialmente ci poteva essere il medico laureato in anestesia, come quello in ortopedia, perché i primi anni di questa specialità erano svolti presso il pronto soccorso e quindi avevano una certa dimestichezza con la traumatologia. Nell’83 ho lanciato l’idea di mettere in ambulanza una borsa con dentro qualcosa di più, come il pallone di ventilazione, i tubi endotracheali, il laringoscopio e quelli che potevano essere i sistemi per bloccare un’emorragia grave o per immobilizzare una frattura. Eravamo stati tra i primi, inoltre, a portare in ambulanza un materasso a depressione, ovvero un materasso al quale si estrae l’aria e diventa un calco del corpo umano come una sorta di gesso momentaneo.

La centrale operativa del Suem di Vicenza negli anni ’90

In questa fase eri già nell’orbita operativa dell’Ospedale di Vicenza?

No no, ero ancora studente di medicina a Verona. Lo facevo assolutamente come volontario.  Ricordo che era stabilito un turno ogni 13 giorni, ma siccome a me piaceva tantissimo facevo anche due o tre turni alla settimana, non badando se si trattasse di domenica o notturni perché ero spinto dalla voglia di praticare, imparare e sentirmi utile a qualcuno in quei momenti drammatici. Una spinta emotiva enorme al punto tale che gli amici mi rimproveravamo di star tralasciando gli esami di medicina, ovvero un apparente controsenso. E fu così che ripresi in maniera ferrea gli studi. Ma ti dirò che aver fatto quel periodo di volontariato “duro”, mi ha aiutato tantissimo perché quelle che ho visto in strada sono state poi le patologie che sono andato studiare sui testi di patologia medica e chirurgica. Quindi se è vero che avevo perso magari un anno nel dedicarmi in maniera assidua al volontariato, poi ho recuperato alla grande perché in strada francamente le avevo viste tutte.

Ma qui allora ti faccio una domanda che mi sono posto spesso immaginando di essere al tuo posto. Non hai un senso di paura o addirittura di orrore verso una situazione cruenta come quella di un incidente grave?

Altroché se l’avevo e se l’ho avuta! Mi ricordo benissimo un episodio della mia vita di studente di medicina a Padova dove seguivo le lezioni del professor Austoni di Semeiotica Medica. Durante quel corso ricordo che entrammo in una stanza buia con due pazienti. Eravamo circa una ventina di studenti. Il professore estrasse una siringa enorme e introdusse l’ago nella parete toracica del pazienti che faceva fatica a respirare, estraendo una mega quantità di liquido pleurico che andava tolto d’urgenza. La cosa mi impressionò al punto tale che svenni e caddi come un pero in mezzo alla stanza. Mi risvegliai con questo professore che in maniera molto blanda mi stava schiaffeggiando. Aprii gli occhi guardai e gli dissi: “ho capito… non farò mai il medico”. “Ma lei sta scherzando? – rispose lui – guardi che è normale sa. Chi non ha paura non è normale”. Questa sua frase mi confortò così tanto che mi convinsi di poterla superare.  Non è stato facile. Per superare lo shock ho cominciato a frequentare le sale operatorie. Cominciavo da una sbirciatina… poi mettevo il camice con la mascherina, entravo stando un po’ dietro le quinte per non vedere troppo da vicino le scene più cruente. Finché un giorno mi ricordo che un professore di chirurgia d’urgenza mi disse: “lei cosa fa lì impalato? Venga qua e mi porti la spatola!” E io, presa la spatola, fui costretto a tornare lì e tenere col divaricatore i visceri separati dall’area chirurgica in modo che lui potesse vedere e operare. Beh, ti confesso che mi tremavano le mani e le gambe. Però poi piano piano ho vinto questa paura.

Un giorno poi ricordo che un chirurgo mi chiese se avessi mai provato a dare i punti di sutura. Lo guardai e gli spiegai che io avevo fatto medicina ma non ero un chirurgo. E lui “Dai vieni qua che ti insegno”. E si mise ad insegnarmi anche quell’attività. Vedere che qualcuno fosse disposto a insegnarti era un qualcosa che mi riempiva di gioia ed anche questo dal punto di vista professionale è stato molto costruttivo.

Federico Politi durante un’uscita d’emergenza

Poi un altro episodio intervenuto nella mia crescita culturale è stato negli Stati Uniti dove verso la fine degli anni ‘80 ero andato a titolo personale. Grazie a mio padre e a un suo caro amico americano fui proiettato addirittura al Thomas Jefferson University Hospital. Ero già medico uscito da Verona e avevo fatto un po’ di guardia medica a Vicenza. Tuttavia, negli Stati Uniti non puoi toccare neanche un ago senza adeguato titolo. Quando arrivai in questo ospedale di dodici piani, dove ogni piano era dedicato alla chirurgia tranne l’ultimo dove c’era il Trauma Center, ricordo che vidi i primi trapianti di fegato che per noi erano ancora fantascienza ma lì invece venivano fatti praticamente ogni giorno. Tieni presente che in sala operatoria avevano già tutto… ma quando tu dici “tutto” è veramente tutto. Noi avevamo sennò un monitor, loro ne avevano quattro, uno per ogni parete. Noi avevamo un ventilatore e loro ne avevano due, uno di riserva. Noi avevamo una macchina per l’elettrocardiogramma e loro ne avevano una in più.  Faceva quasi paura da quante attrezzature tecnologiche di avanguardia avevano. Durante un trapianto loro usavano un’apparecchiatura di precisione che misurava la pressione venosa centrale, un dato molto importante per l’intervento. Ad un certo punto la macchina andò in tilt e non misurava più. Paura, panico… non ne avevano un’altra perché all’epoca non c’erano molte in giro e costava tantissimo, quindi ne avevano una sola. Io abituato all’Università a Verona dove quando dovevamo misurare la pressione venosa centrale anche in sala operatoria prendevamo la classica boccetta di fisiologica da 100 ml, mettevamo il classico tubicino collegato alla via venosa centrale e lì con un rubinetto riproducevamo il classico sistema dei vasi comunicanti riuscendo in maniera empirica ma funzionale ad ottenere la misurazione. Io per risolvere quella situazione di emergenza, bypassando i limiti formali previsti, feci la stessa cosa per loro ottenendo il controllo della pressione venosa. Mi guardarono tutti esterrefatti, come si guarda un mago, uno stregone. Ma io dissi “Guardate che è banalissima fisica!”.  Ricordo ancora la frase del medico principale: “Ma lei mi vuol dire che con un con 1 dollaro di tubicino e un po’ di fisiologia si può fare la stessa cosa di questa macchina che costa 80.000 dollari?” Io stavo quasi per ridere, ma fortunatamente avevo la mascherina e non se ne accorsero. Io credo che questa capacità di ingegnarsi sia uno dei punti di forza che ci distingue.

Ma diciamo mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto e qualche volta la fortuna ti aiuta.

Federico Politi durante un’emrgenza di carattere internazionale

Bravissimo! Ma come hai iniziato a fare sul serio, passando dalla fase di volontariato a quella professionale?

In quegli anni il professor Remigio Verlato stava lavorando per creare un vero servizio strutturato di emergenza medica che doveva essere istituito come centro pilota a Vicenza. Tant’è che nacque una piccola centrale, poco più che una stanzetta con un tavolo, due infermieri, un computer e due telefoni. Pochi ci chiamavano perché questo concetto dell’emergenza nessuno lo conosceva ancora e non era stato neanche tanto propagandato a Vicenza perché si trattava ancora di un timido esperimento. Morale il 10 ottobre dell’88 parte il Suem. Io mi trovo lì come guardia medica perché la guardia medica di Vicenza aveva la sede proprio a fianco a questa mini-struttura. Ci misi il naso e cominciai un po’ a curiosare, come del resto è nella mia natura. Parlai con gli infermieri che c’erano e con delle infermiere che poi sono state le colonne del nostro successivo servizio di urgenza emergenza medica. Cominciai a fare domande per capirne di più, offrendo la mia disponibilità ad unirmi a loro dopo il turno come guardia medica. Inoltre all’epoca ero riuscito a far installare pionieristicamente nella mia auto una radio ricetrasmittente e quindi quando io uscivo ero in grado di mettermi immediatamente in contatto con l’ospedale se c’era bisogno di un’ambulanza. In sostanza ero perennemente in contatto con loro.

Devo dire che all’inizio mi guardavano un po’ così così… della serie “cosa vuole questo medico in erba che si sente Rambo?” Ma il mio spirito è sempre stato volto a dare il meglio per il paziente e per me ogni occasione era buona per imparare dagli altri. Inoltre, investivo quei quattro soldi che guadagnavo per comprare la valigia dell’ultimo modello per il soccorso o altre attrezzature utili. Dopodiché pian piano ho cominciato a farmi conoscere ed apprezzare dato che in fondo ero un anestesista e loro stavano cercando proprio anestesisti. Da lì è iniziato un percorso di specializzazione altamente qualificato e verticale. Dopo l’anestesia mi sono specializzato in rianimazione, poi in fisiopatologia e terapia del dolore; quindi, ho conseguito un master in medicina d’emergenza e urgenza per quanto riguarda le catastrofi presso l’Università di San Marino e l’Università del Belgio. In seguito, ho conseguito un master per il trauma in situazioni terroristiche in Israele. Ho un livello 4 americano di risposta al terrorismo e attacchi di massa e poi molti corsi, convegni e seminari, sempre però nell’ambito della maxi-emergenza dove mi sono sempre focalizzato.

Federico Politi durante una riunione operativa

Avevo infatti notato che dare il meglio di fronte alle emergenze con grandi numeri era un punto dolente del settore, perché anche l’anestesista più preparato, anche il più bravo medico ospedaliero di solito si focalizza sul singolo paziente perdendo di vista che in quella situazione ci possono essere altri pazienti che non possono attendere neanche un minuto. Non riconoscere questo ordine di priorità comportava la possibilità di perdere parecchie vite per salvarne una che magari si sarebbe salvata comunque.

È quindi quella che oggi viene chiamata “triage” un termine usato da Napoleone che in battaglia portava persino il chirurgo e il farmacista già nel 1800 per le emergenze collettive. Il farmacista doveva infatti togliere il dolore perché all’epoca non esisteva l’anestesista e soprattutto non certo per salvare i soldati, ma per rimandarli subito in battaglia. Non per niente il servizio sanitario francese ha radici storiche veramente importanti e poi è stato copiato un po’ da tutti.

Ma a mio avviso non si tratta di copiare, bensì di imparare dai migliori. Nell’arco degli anni ho infatti avuto la fortuna di avere maestri veramente importanti che avevano voglia di passarti il loro sapere. Oggi non è più così ed è forse uno dei degli errori più grossi che stiamo facendo.

Avere attorno gente anche più preparata di me lo ritengo un privilegio perché apprendo anch’io qualcosa.

La Centrale operativa del Suem Vicenza

Condivido pienamente. Una cosa che mi manca in questo percorso è come sia avvenuta la tua entrata ufficiale nell’ospedale di Vicenza, cioè il luogo dove hai poi potuto maggiormente esprimere la tua professionalità e il tuo impegno personale.

Anche qui mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto. C’era un anestesista che aveva dovuto andare in missione in Africa e doveva essere sostituito. Io, che ero lì vicino come guardia medica fui chiamato dal professor Berlato per un colloquio. Dopo aver appreso che già da otto anni ero attivo a vario titolo sul fronte dell’assistenza medica in caso di emergenze, mi propose di partecipare al concorso indetto per sostituire quel medico. Fatalità nessuno si propose per cui fui chiamato subito. Ho quindi iniziato a fare tantissimi turni in questa struttura che già nell’88 chiamava appunto Suem Vicenza, ovvero Servizio Urgenza Emergenza Medica.

Poi con l’avvento del 118 si trasformò in centrale operativa Suem 118 Vicenza quindi diventò quella struttura oggi molto apprezzata dove tutti sono professionalmente ben preparati.

Suem e Pronto Soccorso non sono tendenzialmente la stessa cosa ma in certi frangenti coincidono. Oggi a Vicenza il Suem è allocato presso una sede meravigliosa rispetto a quelle precedenti e abbiamo fatto passi notevoli dal punto di vista funzionale e strumentale e finalmente siamo in grado di erogare certe attività che solo fino a poco tempo fa ci erano impossibili.

Federico Politi durante un intervento d’emergenza medica

Questo ci sta portando anche a una continua crescita e ottimizzazione dei servizi erogati.  Ne abbiamo avuto la riprova nel terribile periodo del Covid.

In un certo senso per noi è stata una situazione che tutto sommato rientrava esattamente in quello che era la gestione delle problematiche emergenziali collettive. Tra l’altro quando ho fatto i corsi di addestramento sia con gli americani sia quelli con gli israeliani, la gestione dell’evento biologico era assolutamente prevista come conseguenza di un ipotetico attacco terroristico.  Inquadrato come pandemia quindi l’approccio non cambiava, se non nelle avvisaglie. Mentre nell’evento terroristico non c’è nessun preavviso e devi rispondere nell’arco di pochissimi minuti, qui c’era più di qualche segnale che sarebbe potuta accadere. Quando ho cominciato a sentire quello che stava succedendo in Cina, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare l’economato per ordinare una dotazione supplementare di mascherine per tutto il mio personale e altre dotazioni di supporto per una possibile emergenza pandemica.

Non è stata preveggenza ma nient’altro che abitudine mentale a reagire di fronte a una situazione studiata nei corsi professionali. Diventa istintivo come quando arriviamo su un incidente e sappiamo già quello che dobbiamo fare. Per prima cosa dobbiamo mettere noi stessi in sicurezza perché se si vai dritti sul ferito a volte ci si lasciano le penne e non si può più nemmeno soccorrere il paziente.

Altrettanto in quella situazione. Quando ha cominciato ad aumentare la diffusione la prima cosa che è venuta spontanea è stata quindi quella di dotare i miei di ulteriori mascherine e indumenti protettivi. Eravamo già preparati a eventi di questo tipo, data la vicinanza con la base Nato, ma è chiaro che non avevamo quantitativi tali da poter sopportare mesi o anni di emergenza.

Tirar fuori il problema e proteggere la squadra è stato un tutt’uno. Tra l’altro avevamo tutti seguito corsi di addestramento in occasione dell’Ebola, altro terribile virus e ad un certo punto la nostra risposta è stata quella di comportarsi come se fosse la cosa peggiore che potesse capitarci, cioè con il massimo delle precauzioni. Tant’è che durante la prima ondata nessuno dei miei è rimasto contagiato.

Ma anche la Regione Veneto si è mossa immediatamente in maniera molto molto capillare e di conseguenza ci siamo trovati pian piano a dare una risposta efficace anche alla popolazione.

In realtà il momento peggiore per noi è stata la seconda ondata perché si pensava che il virus fosse un po’ più attenuato e c’eravamo un pochino più scoperti. Non ci aspettavamo una recrudescenza quale quella che si è poi verificata, tant’è che molti del mio personale se lo presero non tanto sul posto di lavoro ma quando si tornava a casa e si frequentavano familiari magari asintomatici.

Insomma, la seconda ondata è quella che veramente ci ha colpito duramente, anche dal punto di vista psicologico perché c’era la paura che le conseguenze fossero importanti

però per fortuna ce la siamo cavata abbastanza bene e nessuno di noi è finito in rianimazione.

Un’immagine della Centrale operativa del Suem Vicenza

Ma in questa tua lunga esperienza di totale dedizione verso il prossimo, ricordi un caso in particolare ti ha colpito e che tu possa raccontarci?

Si ce l’ho e quando ci penso mi vengono ancora le lacrime. Ero ancora gli albori della mia attività quindi ti sto parlando dei primi anni ’90. Verso la fine del turno a un certo punto veniamo contattati perché proprio vicino all’ospedale nel Parco Querini un uomo che stava correndo con la propria compagna era stramazzato al suolo. Io corsi lì con l’ambulanza e trovai questa persona priva di coscienza, ovviamente in arresto cardiaco, con la compagna in lacrime… ti lascio immaginare la scena. Insieme all’infermiera che era con me facemmo di tutto, ma proprio tutto e di più per ridare una speranza di vita a quel signore. Dopo un intenso massaggio cardiaco e la defibrillazione a più riprese il cuore miracolosamente ripartì. Il paziente era rimasto in coma e non rispondeva, però con il cuore ripartito lo portammo in rianimazione. Il giorno dopo si era ripreso completamente e non aveva avuto nessun deficit. Gli era stato diagnosticato un problema cardiaco per cui poi ha subito l’intervento cardiochirurgico eseguito poi perfettamente. La cosa sembrava finita qui. Nei giorni successivi mi recai a Firenze per esporre alcune mie relazioni ad un convegno sull’emergenza. Una volta arrivato in stazione presi un taxi. Scambiando due chiacchiere di rito con il tassista gli dissi che ero di Vicenza. E lui: “ah… pensi, mio cugino abita proprio a Vicenza e mentre stava correndo con la compagna è stramazzato al suolo. Un medico l’soccorso e l’ha salvato.”

E io gli dissi: “Suo cugino si chiama così… così…”. Lui ferma immediatamente la macchina, si gira verso di me e mi fa: “Ma lei come lo sa?” “Ecco – risposi- lo so perché io sono quel medico”. Silenzio di stupore. “Però a questo punto – dissi – lei tolga a me una curiosità. Quanti taxi ci sono qui a Firenze?” “Circa 500” rispose lui.  E io “Con 500 taxi che ci sono a Firenze sono salito proprio su quello del cugino del mio assistito… non può essere un caso!”
E infatti non finisce qui… il Natale successivo mi arriva un bellissimo biglietto d’auguri da parte dell’uomo a cui avevo salvato la vita, con una fotografia della sua bambina neonata, in cui era scritto “Grazie a lei oggi c’è anche lei”… Insomma, una cosa che mi emoziona ancora come fosse oggi.

Ecco è quello che volevo sentire e ti ringrazio perché ha emozionato anche me. Ti faccio una domanda legata alla nostra città. Ci sono alcune azioni che mancano secondo te e che bisogna fare a Vicenza?

Sai Vicenza ha enormi qualità e ancora grandi potenzialità. Per inciso, lo sapevi che siamo una delle province con il più alto tasso di sopravvivenza post arresto cardiaco del Veneto? Ma per arrivare a questi risultati bisogna far crescere tutti, cittadini compresi, bisogna che tutti abbiano l’umiltà di analizzare le problematiche con una visione di insieme, non devono sussistere delle idee di tipo preconcette o peggio di stampo corporativistico. Il SUEM 118 è un bene di tutti, tutti bene o male ne facciamo parte. Fare squadra secondo me è la cosa più importante. Io ho visto che il Covid l’abbiamo superato perché abbiamo fatto gruppo. La squadra non la fai solo di fronte a una malattia. La si deve fare in tutto. Significa collaborare tra di noi per agevolare tutti noi. Il San Bortolo è realmente un ospedale di eccellenza quantomeno nazionale, ma bisogna tenere presente che la medicina è fatta dai medici, dagli infermieri, dal personale e non è fatto dai macchinari, per quanto all’avanguardia come quelli che oggi abbiamo finalmente in dotazione.

Probabilmente questo è il momento più elevato nella storia del Suem di Vicenza, perché a parte la sede nuova che è veramente fantastica, a parte i mezzi che finalmente abbiamo la cosa di cui vado più fiero è il gruppo che si è creato e che ho la fortuna di dirigere.

Mio nonno diceva sempre che si guadagna quando nessuno dei due ci rimette e se vuoi avere una buona squadra nessuno ci deve rimettere.

Federico Politi

Oddio, sinceramente non lo so.

Mi basta un ordine di grandezza.

Ma sai, non è che le ho salvate solo io… cioè io ho dato il “la” poi è chiaro che se io ho fatto un buon lavoro ho permesso ad altri di fare un altro buon lavoro. Se non ci fossero delle ottime attività consequenziali di rianimazione, chirurgia, cardiochirurgia, chirurgia toracica, se non ci fosse tutta una serie di passaggi di eccellenza, il mio lavoro sarebbe stato assolutamente inutile.

Dai, “stampa” un numero!

Ok… allora ti rispondo… almeno un migliaio… ma sto sparando più basso possibile…

Complimenti sinceri! Fai la professione più “bella” del mondo. Ma senti, un’ultima cosa… parliamo di solidarietà a Vicenza. Come forse sai ho supportato con il mio lavoro di comunicatore la Fondazione San Bortolo, che ha svolto un’azione straordinaria di sostegno al nostro ospedale. Come vedi il ruolo della solidarietà “privata” a supporto delle istituzioni sanitarie pubbliche?

Lo vedo fondamentale, prima di tutto perché ho avuto modo di conoscere personalmente Gian Carlo Ferretto, persona straordinaria, che ha dato un contributo strategico al mio servizio. Ma della Fondazione non posso non citare il compianto Nicola Amenduni, anche lui tra i fondatori, così come l’attivissimo Franco Scanagatta, solo per fare alcuni nomi.

Gian Carlo Ferretto (ex Pres. Fondazione San Bortolo) con Federico Politi

Non che l’amministrazione pubblica non si sia dedicata, perché ultimamente devo dire che hanno fatto veramente cose eccelse, ma se non avessimo avuto anche questi contributi esterni di certo non avremmo potuto essere quello che siamo oggi.

Il ruolo della solidarietà lo trovo fondamentale e non per niente, come ti ho raccontato, io stesso l’ho sempre applicato in termini di lavoro, facendo volontariato per anni e anni.

Ho partecipato a molte missioni umanitarie, sono stato in Ecuador come anestesista ed ho svolto parecchie attività solidale che ritengo stupende perché poi in realtà arricchiscono interiormente chi dona.

Un’ultima curiosità personale. Quando nell’arco di tutti questi interventi emergenziali ti sei trovato davanti a dei bambini, qual è la differenza di reazione e di gestione di un bambino in emergenza rispetto ad un adulto?

L’ho vissuta tante volte purtroppo. Ed ho imparato che quando sei in emergenza guai se ti fai prendere anche per un attimo dalla parte emotiva. L’approccio verso un bambino per me è prima di tutto professionale perché parto dal presupposto che solo se io metto in atto la mia massima professionalità potrò salvare quell’essere umano. Quindi in quel momento io riesco a proprio estraniarmi da quella che può essere la parte empatica per dare rilievo alla parte professionale e questo mi ha permesso di venire a capo di tante situazioni ai limiti.

Tuttavia, se parliamo di emergenza estrema, il bambino è sempre il primo che si va a soccorrere. Ma non perché bambino, bensì perché è quello che ha meno tempo di sopravvivenza. Se un adulto ha una possibilità di sopravvivenza di dieci minuti, il bambino ce l’ha di uno. Se un adulto perde perde un litro di sangue questo è compatibile con la sua sopravvivenza. Se un litro lo perde un bambino non ha possibilità di scampo. Inoltre, in questo tipo di frangenti il bambino ha la priorità anche perché va incontro a ipotermia in tempi molto più brevi.

Proprio per questo motivo non si può avere un approccio emotivo, perché l’emotività bloccherebbe la lucidità in quegli istanti che consentono di poterlo salvare.


E con gli anziani come funziona? Come gestisci le emergenze della terza età?

Tolte le situazioni di massima emergenza, dove sono le specifiche circostanze a dettare le priorità, l’anziano secondo me ha bisogno soprattutto di rispetto. Se riesci ad entrare nella sua sfera emotiva, se hai un profondo rispetto della sua persona, allora ci sono buone speranze di trasformare l’intervento in un successo. Il rispetto ci vuole con tutti, ma loro lo sentono di più. Hanno bisogno di sentirsi protetti e non presi in giro.

Ti ringrazio moltissimo Federico anche a nome di tutta Vicenza! È stato davvero un piacere sentire il racconto della tua vita che coincide con quello della tua professione e che sono così strettamente connessi con la vita dei vicentini.

Federico Politi con Maurizio Sangineto


Maurizio Sangineto

Artista, Comunicatore, Naming Specialist. Ideatore di VICENZA.COM

Vuoi segnalare qualcosa di interessante su Vicenza, a cui vorresti dare più visibilità?