
ROBERTO FLOREANI: IL PIU’ GRANDE ASTRATTISTA ITALIANO
Incontro con l’artista, scrittore e performer, vicentino d’adozione, che ha rappresentato l’Italia alla Biennale. Un’intervista esclusiva sullo sfondo di una Vicenza a metà tra un nobile passato ed un “futuro” da riscrivere secondo la sua visione.

Artista, Comunicatore, Naming Specialist.
Ideatore di VICENZA.COM
Ciao Roberto, ci conosciamo da una vita ma molte tappe del tuo percorso non le conosco. Che molla è scattata in te, quando eravamo ragazzi, che ti ha portato, anziché ad immaginarsi nel classico sogno del professionista, in un pittore? Cosa ti ha fatto diventare quello che sei oggi, ovvero uno degli artisti italiani più rappresentativi?
Nasco a Venezia, da padre friulano e madre francese. Un incontro romantico nato proprio sulla collina di Borgo Floreani dove affondano le radici della mia famiglia da almeno 600 anni in quella terra e dove quella di mia madre aveva la residenza estiva. Una storia alla Romeo e Giulietta, per intenderci, ma a lieto fine.

Le mie radici sono quindi friulane e a quella terra sento di appartenere, con tutta la riservatezza caratteriale tipica della gente di quelle parti, anche se di fatto il Veneto, ed in particolare Vicenza, sono divenuti la mia seconda patria. Ma anche l’educazione francese di stampo calvinista, molto rigorosa e pragmatica, trasmessami da mia madre, ha avuto il suo peso nella mia formazione caratteriale.
Denominatore comune di entrambi di genitori, preparati e molti esigenti, è stato l’amore per la Cultura, al primo posto nella loro scala dei valori.
Arrivo quindi a Vicenza dove inizio, nel 1962, il mio percorso scolastico, per certi versi selettivo in chiave cittadina di quel periodo: elementari alla Giusti, medie alla Riale e un Liceo, nel mio caso scientifico, al Lioy.

Come mai Liceo Scientifico, data la tua indole umanistica?
Guarda, come spesso succede da giovani, è il contesto familiare ad incidere nelle scelte. In quegli anni di decisa rivendicazione d’indipendenza volevo semplicemente smarcarmi dall’identico percorso di mio fratello maggiore.
Come hai vissuto quindi la tua gioventù a Vicenza?
In verità, il polo di riferimento è sempre rimasto Borgo Floreani in Friuli, perché i miei non avevano frequentazioni in città e per loro ogni occasione era buona per tornare nei luoghi d’origine. Avevamo casa anche a Grado, dove passavamo il resto delle vacanze estive. In sostanza quando ero a Vicenza semplicemente studiavo e con molto impegno. Unica “distrazione” lo sport, che praticavo con dedizione e passione.
Ad un certo punto però qualcosa deve essere scattato in te… Come è nato l’interesse per l’arte e la voglia di diventarne protagonista?
Certe cose credo siano innate. Io sono mancino e nel modello scolastico di quegli anni, uno scolaro non poteva esserlo, pena le bacchettate sulle mani e forti pressioni psicologiche. Ma quella diversità, che non si è mai omologata, era probabilmente già il segnale di un’indole indipendente e determinata, che aspettava solo di trovare il momento giusto per uscire allo scoperto, anche in chiave artistica. Un istinto naturale, quindi.
La svolta è nata con la Maturità, conseguita con il massimo dei voti a metà degli anni ’70, i famigerati “anni di piombo”, con tutte le connotazioni ed influenze di quel periodo così particolare per la storia italiana. Una presa di coscienza della mia individualità che mi portò a non seguire il percorso che appariva più naturale, orientato verso gli studi letterari ed artistici, essendo naturalmente portato per il disegno, ma paradossalmente ad iscrivermi alla Facoltà di Economia dell’Università di Padova nella sede staccata di Verona, motivato da una grandissima esigenza di capire cosa accadesse nel mondo reale, determinando anche quegli scossoni sociali.
È stato un periodo molto impegnativo dal punto di vista formativo, che mi ha consentito di laurearmi nei tempi canonici nel 1980, per poi passare operativamente all’arte già l’anno successivo, non prima di una permanenza vertiginosa e visionaria a New York. Era già tutto scritto.
Quindi tu, nei ritagli di tempo, evidentemente già dipingevi…
Certo! L’avevo sempre fatto, sin dalle dalla scuola materna, dove ero sollecitato dagl’insegnanti ogni qualvolta ci fosse bisogno di un intervento artistico. Ma ciò che ha contribuito maggiormente alla mia formazione in questo ambito sono stati i frequenti viaggi per visitare musei che mia madre, appassionata d’arte impressionista, ci faceva fare anche all’estero. Ma io, anziché essere attratto da quegli artisti, avevo modo di vedere e ammirare nel contempo tutte le avanguardie non figurative che lei invece non apprezzava.
Succedeva così, che un po’ alla volta, influenzato dai grandi maestri dell’astrattismo, perdevo via via interesse verso la classica tecnica figurativa, per abbracciare valori estetici totalmente innovativi, che si sposavano evidentemente con pulsioni interiori che già avvertivo. Anno dopo anno aumentavo, attraverso lo studio metodico di quelle correnti, la mia conoscenza e competenza sul genere che poi ho scelto come mio. L’Astrattismo appunto.
Qual è stato il debutto?
Nel 1981 la mia prima uscita pubblica come artista è avvenuta localmente: al Museo Casabianca di Malo. Invitato ad una mostra-laboratorio assieme ad altri giovani artisti, ho scardinato le consuetudini decidendo la realizzazione dal vivo di un’opera di oltre due metri, affrontando il rischio del grande formato.


In quel momento ho letteralmente “sentito” che quello era l’inizio dell’avventura che avevo sempre alimentato nel mio intimo, un’esperienza quindi seminale nella mia decisione di proseguire il percorso nell’arte.
Quindi in quel momento hai scoperto di avere un’indole istintiva per l’arte e da lì in avanti l’hai “semplicemente” affinata…
Ho sempre sentito dei segnali che mi indicavano quel percorso, nonostante ogni circostanza della mia gioventù avesse in qualche modo remato in un’altra direzione. In realtà avevo questo “nucleo” prezioso dentro, che Majakovskij definirebbe come “sabbia aurifera”, che, in qualche modo, avevo preservato con molta determinazione, fin dalla tenerissima età.
Ti racconto io un episodio che forse tu non ricordi. Avevamo circa 18 anni ed eravamo soliti frequentare, per amicizie comuni, la casa di Angelo Carlo Festa, fondatore della mitica Belfe, appassionato d’arte e persona di spessore culturale. Mentre io e gli altri amici discutevamo di musica, calcio (e ragazze ovviamente), tu te ne stavi con lui per ore a parlare di opere che in quella casa abbondavano. Mi chiedevo cosa aveste da dirvi di così avvincente, che a me sfuggiva. Era chiaro che già allora quell’argomento veniva al primo posto nei tuoi interessi.
Ricordo bene quei momenti. e ricordo anche che Angelo Carlo mi fece conoscere il grande maestro Giuseppe Santomaso, che, negli anni a seguire, dimostrerà poi grande interesse per il mio lavoro, contribuendo al mio Premio Acquisto dalla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, nel 1985-86.
Spiegami allora come hai trasformato questo “fuoco” iniziale in un mestiere di successo.
La ricetta è quella classica… tanta costanza e una determinazione ostinata che prescinde dai risultati, che naturalmente non possono arrivare subito. Ad esempio, la scelta di restare a Vicenza, in quell’epoca poteva essere ultra-penalizzante. Quando poi sono stato più avanti con la carriera mi sono spostato anche a Milano, più che altro per un fatto logistico, ma devo dire che non ha aggiunto nulla al mio percorso, anzi ho verificato direttamente come l’isolamento della provincia, durissimo, ma che non concede distrazioni, possa risultare essenziale, come diceva anche un vicentino importante come Goffredo Parise.
Milano non è che una serie di piccole province, molto chiuse e raggruppate nello stesso territorio.
Idem anche per me. Stessa esperienza e stesse conclusioni.
Ho iniziato poi ad andare spesso a Parigi, dato che anche il francese era la mia madrelingua, con frequentazioni che in qualche modo mi hanno formato ulteriormente. Quindi è successo tutto un po’ alla volta, senza il “botto” che a volte spara improvvisamente alcuni artisti alla ribalta. Passo dopo passo…
Quand’è stato il classico momento in cui hai sentito che ce l’avevi fatta a coronare il tuo sogno giovanile?
Questa sensazione credo non debba arrivare mai, ma è comunque duplice: quando lo senti tu, tra te e te, e quando te lo riconoscono gli altri.
Per quanto riguarda la prima, avendo studiato con attenzione anche l’Arte Astratta e le biografie dei suoi protagonisti, da cui di fatto mi distanziava solo qualche decennio, ero cosciente dei differenti percorsi che avevano portato a questa sensazione. Essendo inoltre vissuto in una famiglia per cui qualsiasi risultato non era mai bastante, ero inevitabilmente anche molto autocritico con la mia ricerca.
Nel momento in cui ho sentito qualcosa che mi gratificava interiormente e che non riconducevo a nessuna delle lezioni dei miei Maestri ideali, ho capito che stavo facendo qualcosa di realmente personale e che il mio orientamento giovanile si stava realizzando.
Per quanto riguarda invece il riconoscimento pubblico, ci sono stati due eventi che hanno oggettivamente rappresentato un salto di qualità: l’ampia antologica alla Casa dei Carraresi organizzata nel 1997 da Marco Goldin (unico astrattista che mi sembra abbia proposto in vita sua), con oltre 100 opere esposte sui tre piani del palazzo, documentate da un catalogo con diffusione nazionale. È stato questo un segnale importante.

Avrei potuto considerarmi appagato e rischiare l’insuccesso per sovraesposizione e invece la risposta è stata molto convincente, creando le condizioni ideali per un secondo evento chiave. Nel 1999, sono stato invitato infatti per un altro progetto personale dal Credito Valtellinese, nella loro immensa galleria alle Stelline, in centro a Milano, dove avevano già esposto grandi artisti di valore assoluto, tra cui Andy Warhol, con la sua ultima mostra da vivente.
Qui, alzando ancora di più l’asticella in termini progettuali, invitai la figlia di Ezra Pound a presentare la mostra, che mi concesse il privilegio di collegare idealmente le mie opere ai testi di suo padre. Accettato quindi l’azzardo, il ritorno critico e mediatico fu molto alto e fu per me la conferma che la mia ricerca stava trovando i suoi sbocchi in modo convincente.

Naturalmente, l’invito a rappresentare l’Italia, nell’omonimo Padiglione alla Biennale di Venezia del 2009, non può che esser stata una grande gratificazione personale e professionale, anche se oggi e’ importante godere della stima e della confidenza di Gian Enzo Sperone, con ogni probabilita’ il piu’ importante gallerista del secondo dopoguerra a livello mondiale, dopo aver dialogato a lungo anche con il grande critico e artista Gillo Dorfles, con cui mi sono confrontato su molti temi legati alla storia dell’astrazione italiana, dopo la sua visita alla mia personale al museo MaGa nel 2011..


Se ti volti all’indietro, verso quei momenti, che bilancio tracci?
Credo che tracciare bilanci lungo il cammino non sia producente, ma, è inevitabile che ogni tanto valuti il mio percorso, per non perdere il senso del progetto. In 35 anni di attività ho realizzato 70 mostre personali, oltre 20 ospitate da istituzioni pubbliche e musei italiani, due in Germania, una in Slovenia e una in Croazia.
Anche dal versante letterario sono stato invitato al convegno internazionale “Futurismo 100” dalla Fondazione Gulbenkian di Lisbona.

Tutto questo grazie alla mia peculiarità di concepire progetti espositivi appositamente per gli spazi che andranno a contenerli. In termini di ricerca, negli anni, si sta rivelando un elemento distintivo: ad esempio, per il mio progetto al piano nobile della Gran Guardia di Verona nel 2014, concesso per la prima volta ad un artista vivente, che ha dimostrato in questo modo una forte intenzione istituzionale verso un progetto specifico nei loro spazi, pur prestigiosi.



Sono stati quindi questi risultati concreti a consentirti di trasformare una passione istintiva in un mestiere condotto poi in maniera estremamente autorevole. È fondamentale che un’indole venga premiata con il successo, altrimenti rimane una passione e si ferma lì. Ma dopo una carriera così importante, che ha convinto l’establishment dell’arte, che altri traguardi ti sei posto?
Non credo che esistano traguardi reali in questa ricerca, se non il desiderio di continuare a realizzare le proprie urgenze interiori, in un settore di una difficoltà inimmaginabile, privo di garanzie a tutti i livelli, di una precarietà assoluta. Tuttavia, passo dopo passo, si procede inevitabilmente verso il progetto successivo, che si cerca di mantenere sempre più aderente alle proprie ambizioni espressive. Ma, prima di parlarne voglio suggerire quello che penso possa essere il punto di partenza per tutti. È indispensabile avere coraggio!
Con una laurea in Economia, negli anni in cui sviluppare una professione ben remunerata non si è dimostrata cosa particolarmente difficile, ho deciso invece di fare solo l’artista, riuscendo a mantenerci anche una famiglia. Non è stata e non è ancor oggi una cosa semplice. Non credo sia comunque un azzardo, semmai qualcosa di “inevitabile”. Le urgenze interiori penso vadano assecondate con determinazione, magari seguendo proprio il tradizionale destino attribuito storicamente ai mancini? Chissà…
Quindi una sorta di destino…
Ho voluto seguire una pulsione che ho definito non casualmente inevitabile…
Ma raccontami di questo nuovo progetto…
Le mie opere, negli anni, si sono ritagliate una loro riconoscibilità precisa e credo che l’invito a rappresentare il mio Paese nell’omonimo Padiglione alla Biennale di Venezia nel 2009 abbia voluto esserne il riconoscimento.

Si potrebbe dire popolarmente che “Ti sei preso la “categoria”...
(sorride) La vera ambizione credo possa essere per ogni artista quella di svolgere un ruolo nel proprio periodo storico di riferimento: nel mio caso riuscire a dare quindi un contributo alla continuità dell’Astrazione, nata oltre un secolo fa come autentica novità del Novecento. Un contributo che non si risolve solo attraverso la realizzazione dell’opera, ma anche a livello teorico e concettuale.
Seguendo questo impulso, mi sono dedicato allo studio di Umberto Boccioni, artista mirabile e teorico di riferimento degli inizi del Novecento, ricerca che mi ha portato alla pubblicazione con Mondadori del saggio Umberto Boccioni. Arte-Vita, finalista al Premio Acqui Storia del 2018.



Boccioni è stato un artista caratterizzato da una commistione di ricerca e determinazione, caratteristiche che penso siano indispensabili nell’affermazione della propria linea espressiva e che anch’io cerco di seguire ogni giorno. Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, probabilmente per questa mia combinazione tra ricerca materiale sull’opera e analisi teorica, ha avuto occasione di definirmi come “L’erede naturale di Boccioni”, in un articolo pubblicato di recente.
Il saggio su Boccioni, che seguiva quello su I Futuristi e la Grande Guerra, mi ha dato le motivazioni e la consapevolezza per cercare un ulteriore salto di qualità, scrivendo un nuovo libro, ormai ultimato, sulla Storia dell’Astrazione attraverso il mio lavoro, contribuendo a quella “Linea italiana all’Astrazione” che mi viene attribuita dalla critica già da molti anni. Saggio che penso possa contribuire a colmare una lacuna sull’argomento specifico, perché ormai da molti anni non viene analizzata l’Astrazione nel suo complesso, tantomeno dall’interno, come in questo caso, anche attraverso quello che gli artisti stessi scrivevano del loro lavoro.
Ebbene, questo saggio fungerà da supporto teorico per un progetto espositivo concepito per una serie nuova di opere che ho titolato Costellazioni. Per la prima volta nella mia carriera le due componenti pittorica e teorica interagiranno direttamente tra loro.


Molto interessante! Mi dà lo spunto per chiederti come scatta il meccanismo mentale per cui un artista affermato in una determinata disciplina, decide di fare un salto ed esplorare anche altre strade espressive. Tu oltre che dipingere, scrivi, appunto, ma fai anche teatro e reciti. Sei evidentemente un fautore della multidisciplinarietà nell’arte. Come vivi questa molteplicità? Come riesci a calarti nei panni di un attore che recita a teatro?
La multidisciplinarietà, oggi più comunemente chiamata contaminazione, è stata sdoganata dal Futurismo, prima Avanguardia Storica del Novecento, ed è oggi considerata la normalità. Da estimatore del Futurismo, penso anch’io che l’artista possa cimentarsi in tutti gli ambiti che ritiene possano essere l’espressione della sua interiorità.
Mentre l’aspetto teorico credo che faccia parte della mia formazione, collegato con l’abitudine alla scrittura, non mi attribuisco certo particolari abilità attoriali. I futuristi salivano sul palco dei teatri negli anni ’10 per “declamare” e comunicare le proprie emozioni nel modo più diretto. È questa anche la mia ambizione: trasmettere emozioni attraverso la lettura di testi che reputo significativi.


Questa passione mi ha consentito di entrare in relazione diretta con la famiglia Marinetti, in particolare con Vittoria, la primogenita del fondatore del Futurismo, Tommaso Filippo Marinetti, con la quale ho organizzato un convegno proprio a Vicenza, nel 2003. Grazie a questa collaborazione, divenuta poi amicizia fino alla sua recente scomparsa, nel 1999, in occasione del novantennale del Futurismo, mi ha portato a organizzare un’inconsueta mostra in Basilica Palladiana, seguita poi da quella organizzata nel 2009 a Padova, per il centenario, dedicata alla scultura Futurista.

I Futuristi, che hanno rovesciato come un guanto la storia dell’Arte così com’era conosciuta fino a quel tempo, prevedevano appunto che per raggiungere il rinnovamento totale, fosse necessario cimentarsi in modo frontale, rivoluzionario nella pittura, nella scultura, nella fotografia, nel teatro, nella scenografia, fino alla cucina con il manifesto “contro la pastasciutta” o a quello dell’anti-cravatta. Pur essendo rilevanti in una determinata disciplina, non esitavano infatti a cimentarsi nelle altre, con uno spirito rivoluzionario globale.
Questo spiega perché riporto anche nei libri o sul palcoscenico le vicende dell’arte che amo. Trovarsi sul palcoscenico, davanti a centinaia di persone in ascolto, regala emozioni fortissime che arricchiscono lo spirito e le motivazioni. Io in questo tipo di attività “collaterale”, declamo spesso testi futuristi, facendo da “medium” tra un’esperienza artistica di inizio secolo e la sensibilità collettiva attuale, che paradossalmente spesso non vive ancor oggi le emozioni in maniera così coinvolgente e travolgente come allora.
Erano quindi troppo avanti!
Erano l’Avanguardia e questo credo sia anche il mio modello artistico, ovvero coniugare con la ricerca pittorica anche l’attività teorica divulgativa relativa alla corrente artistica di cui le opere fanno compiutamente parte.
Questo è interessante e fondamentale che tu lo dica. Lo avevi spiegato a me un paio d’anni fa e da allora ho guardato all’arte astratta con occhi diversi e molto più favorevolmente aperti. Mi hai tolto il timore e la perplessità. Ti ringrazio ancora per avermi illuminato al riguardo. Prima pensavo che fosse solo materia per critici di professione…
Infatti, non c’è niente da “capire”. Non è obbligatorio. Devi solo “sentire” o meno, guardandoti dentro.
Ora ti racconto io un episodio che descrive eloquentemente quanto dentro di te esista una fiamma che alimenta la tua determinazione artistica incessantemente. A me piace osservare i dettagli, perché rivelano molto. Qualche tempo fa sono passato a trovarti nel tuo studio-laboratorio, (era la prima volta che ti vedevo all’opera) e ricordo che abbiamo parlato per quasi un’ora dei più svariati argomenti, lontanissimi dall’arte, e tu hai continuato imperterrito a lavorare su un’opera senza mai staccare un minuto. Quasi una catena di montaggio, di cui tu eri protagonista unico, attento ad ogni dettaglio di ciò che mettevi sulla tela, pur continuando a parlare con me di tutt’altro. Hai dissociato il cervello ed era come se a parlare con me ci fosse un’altra persona, mentre tu eri guidato da una sorta di diktat interiore e superiore.
Me lo ricordo… parlavamo di arti marziali… che ci accomunano.
Esatto! E qui volevo condurti ora. Mi piace sapere come tu interpreti questo matrimonio fra due mondi apparentemente così lontani: arte estetica ed arte marziale.
Guarda, è un’identità che passa anche attraverso la letteratura e la multidisciplinarietà. La capacità di saper gestire agevolmente diverse tecniche conferisce ragioni molto più profonde al tuo lavoro. Ti consente di non andare solo ad intuito, ma di capire che l’opera d’arte può essere anche un veicolo per un messaggio spirituale. La predisposizione al silenzio, all’ascolto, al distacco dalla materialità, alla disciplina, la dinamica dell’interpretazione e del controllo delle proprie emozioni più recondite sono compiutamente parte delle arti marziali, specie se orientali.

Francis Bacon diceva che per l’artista l’ispirazione non esiste, perché, consciamente o inconsciamente, è già concentrato 24 ore al giorno solo su quello: questo spiega perché io possa parlare d’altro pur continuando a dipingere. Questo riguarda la maggior parte delle fasi della mia ricerca, non tutte: ci sono infatti momenti in cui la concentrazione non mi consente altre distrazioni, soprattutto in fase di concepimento dell’opera.
Le arti marziali sono state per me “l’ordinatore”. Cominciate a sei anni e continuate fino ad oggi. Temporalmente, ho avuto quindi più arti marziali che padre, che pure è stato un riferimento importante fino al 2004, quando è mancato. Le arti marziali mi supportano ancora oggi. Dapprima discipline di contatto, ad ultima istanza molto simili alle sfide che ho intrapreso per perseguire la carriera artistica, che, di fatto, sono state un confronto con qualcosa/qualcuno con cui dovevo relazionarmi e cioè l’identità stessa del confronto.
Anni di pratica per arrivare, dopo un percorso di quasi trent’anni, ad una disciplina “interiore” come il Tai Chi, che abbina il rigore di un movimento marziale che ambisce alla perfezione, ad una ricerca interiore di profondità e armonia. Ma ti dirò di più… molti astrattisti, da Balla a Burri, parlano della “lotta con il corpo della pittura”. Nel mio caso, la specificità della mia tecnica pittorica che prevede fino a trenta strati soprapposti, rende questo confronto anche molto faticoso, richiedendo, sui grandi formati in particolare, anche una notevole resistenza fisica.
Infatti, ti ho visto lavorare per ore in piedi. Ed è lì che mi sono stupito… Mentre parlavamo, hai steso molti di questi strati sulla tela con perfezione maniacale. So che non sei arrivato da solo a questo tipo di preparazione fisica. Hai avuto maestri importanti in ambito delle arti marziali.
Si, ho avuto la fortuna di averne almeno tre. Il primo, nel Judo, Giancarlo Piccoli, da poco scomparso, un vero gigante a livello mondiale, maestro di livello olimpico, che ci allenava come dei piccoli Samurai. Già Nel ’63, quando il Judo in Italia era ancora pionieristico, con lui ho avuto i miei primi risultati. Una guida di vita, prima che di disciplina agonistica. Mi ha insegnato ad essere uomo. A ricercare il successo ma ad accettare le sconfitte, superando pure le ingiustizie.

Poi nel 1994, ho incontrato un primo grande maestro nel Tai Chi, Li Rong Mei, probabilmente uno dei più grandi a livello europeo, con cui ho fatto il passaggio a livello di cintura nera.

Ed ora ho la fortuna di essere allievo di Shi Miao Chan, monaco guerriero Shaolin, ovvero il più assoluto livello, mio attuale Maestro di Tai Chi.

L’ultimo dei tre ci accomuna… Giovane ma straordinario. E caso vuole (ma nulla è casuale) che sia giunto a Vicenza partendo da 10 mila km di distanza. Mi dà lo spunto per una domanda che ci riporta appunto nella nostra città. Ogni persona dotata di profondità di pensiero la vede, la interpreta, la giudica e la vorrebbe in un certo modo. Tu?
Sicuramente non ho il complesso del “Nemo propheta in patria” perché Vicenza mi ha tributato importanti riconoscimenti: la mostra in Basilica nel ‘99, la mostra a Palazzo Chiericati nel 2015, la serata al Teatro Comunale. Tuttavia, le città hanno un’anima e Vicenza la definisco “resistente”. Non è “docile”, ma si raccoglie in se stessa e tendenzialmente non è accondiscendente con nulla.
Sono stato nel consiglio direttivo del CISA per quattro anni e lì ho avuto modo di leggere le missive del povero Andrea Palladio, “massacrato” dai suoi committenti, dai quali subì parecchie angherie, convinti che farlo lavorare per loro fosse in qualche modo già un riconoscimento. Vicenza è un po’ così. Se tu fai una proposta, anche la più banale, tipo un invito a cena, la risposta non è quasi mai immediata e favorevole, ma in genere contraddistinta da prese di verifica di circostanza. È di indole resistente, appunto.
Io mi sono occupato della cultura della città per quattro anni, dal ’99 all’ ’2003, dando vita ad iniziative importanti. Ad esempio, la mostra più importante della carriera di Paul Jenkins, uno degli artisti espressionisti astratti più emblematici della storia dell’Arte.

Ma anche una mostra con la famiglia Marinetti, o il Festival della Poesia all’Olimpico, invitando la figlia di Ezra Pound. O ubicando il Teatro sotto le Stelle nell’inutilizzato chiostro di Santa Corona, per fare qualche esempio. Se ci si può fregiare di Palladio nel mondo, ma Palladio non diventa un catalizzatore turistico internazionale per la città significa che si ha una sorta di freno sempre tirato.
Se alcuni paesini sperduti, come Spoleto, sanno attirare persone da tutto il mondo solo per una iniziativa estemporanea, mentre Vicenza, pur avendo la più importante eredità del padre dell’architettura mondiale, riconosciuta dall’UNESCO, significa che qualcosa non funziona a diversi livelli. Forse manca l’entusiasmo, forse la disponibilità di mettersi in gioco. Vicenza avrebbe tutto. Il Museo di Palazzo Chiericati oggi spettacolare, la Basilica che è uno degli edifici più belli del mondo, il Teatro Olimpico che lascia senza respiro. Oltre ad una invidiabile posizione geografica equidistante tra Venezia, Verona e Padova.
So, per conoscenza personale, che almeno due dei più grandi artisti contemporanei al mondo, verrebbero volentieri ad esporre a Vicenza, per il prestigio del contesto palladiano. Posso quindi solo dire che si potrebbero fare un sacco di cose importanti. Quando mi ci sono cimentato le abbiamo fatte, ed era una Vicenza diversa e con tanti più limiti di oggi. La Basilica era parzialmente agibile, il Chiericati ancora da restaurare e inusabile, il Teatro comunale non c’era. Adesso c’è tutto. Si potrebbero fare delle grandi cose.
Negli anni, hai collaborato anche con istituzioni pubbliche per la realizzazione di mostre e programmi culturali, anche a Vicenza. La giudichi un’esperienza interessante?
Ho collaborato fin dalla fine degli anni ’90 con le istituzioni: prima con la Regione Lombardia per un quadriennio, collaborando al piano innovativo “Ripensare la Cultura”. Poi, sulla base di quell’esperienza anche con il Comune di Vicenza, per cui ho realizzato molte mostre e iniziative culturali dal 1999 al 2003. Esperienze sicuramente formative e di grande fascino.
Basterebbe volere quindi?
Basta puntare sulla qualità e sulla competenza…
Hai detto niente… Non è il problema di Vicenza, ma della nostra società, della nostra epoca… superficiale, distratta, consumista, spesso ignorante… La nostra società ha deciso che la qualità non le interessa. Le interessano i numeri, o meglio, come dice il bravo Gianantonio Stella “i schei”.
Condivido, ed è questa esattamente la trappola in cui sta cadendo Vicenza. Cioè pensa di poter fare le cose sui numeri non rendendosi conto che il meccanismo che innesca il capitale sui numeri, chiede grande competenza specifica. Non puoi fare le cose a metà se vuoi grandi risultati. Devi investire tanto e rischiare altrettanto. Ma oggi non si può più rischiare. L’esperienza e la competenza devono essere documentate in modo inequivocabile, imprescindibili per la gestione del denaro pubblico
Quindi si potrebbe fare molto, ma è l’approccio ad essere sbagliato.
I progetti dove si mettono in gioco i soldi pubblici si fanno con i curricula. Quindi, valutazione Basilica da 1 a 100: 100! (Per fare un esempio comparativo, Guggenheim non raggiunge lo stesso livello). Teatro? 100 su 100. Chiericati? 100 su 100! Vittorio Sgarbi, che ho portato a visitarlo, lo ha definito straordinario. E perché lo dica Sgarbi, non avendoci messo del suo…

Più la gemma del Teatro Olimpico, che non ha eguali al mondo. L’avevo scelto ad esempio come contenitore ideale per il premio “Cittadinanza onoraria Palladio d’Oro” invitando, ad esempio, lo scienziato Carlo Rubbia, che nel 2003 tenne una lectio magistralis sull’Iperloop, ferrovia magnetica da 1000 km l‘ora, sviluppato oggi da Elon Musk…Vicenza-Milano in 3 minuti… tanto per dare l’idea. O ancora l’architetto Alvaro Siza, che sempre all’Olimpico ho chiamato a tenere la sua Lectio Magistralis.
Qui c’è tutto.
Ti racconto io due episodi che si innestano perfettamente in questo discorso. Il primo riguarda Renzo Piano, che intervistai nei primi anni ’90, per un video su Vicenza. Era già un’archistar. Ricordo la sua definizione della Basilica: “un’astronave del ‘500 discesa dal cielo”. Un UFO, in sostanza, per tanta inedita magnificenza fuori dal tempo e dagli schemi. E ce l’abbiamo noi…
Il secondo riguarda Rudolf Nureyev, nello stesso periodo, protagonista di un altro mio video, su Palladio. All’epoca era una delle star più iconiche ed acclamate al mondo: Lo volevo appunto per questo, ma sembrava un’impresa impossibile, specialmente per il ridottissimo budget a disposizione. Fui quasi deriso. Decisi di provarci comunque ed esposi al suo manager la mia idea. Gliene parlò e la risposta, imprevedibilmente, fu positiva. Quando chiesi quale fosse stata la “molla” che gli aveva fatto accettare una così esigua offerta, scoprii che Nureyev era un “fan” di Palladio e che a Vicenza era venuto privatamente più volte a fotografare le sue opere.
Ecco, questo è il punto. Perché Vicenza non riesce ad intercettare questa immensa, straordinaria, richiesta latente? Perché non concretizza?
Ecco cosa intendevo per “resistenza” caratteriale. Va smussata, se si vuole innestare un cambio di direzione e portare questo gioiello all’attenzione del mondo.

